Da oltre un secolo i polimeri plastici hanno rivoluzionato il nostro modo di vivere: hanno permesso la creazione di innumerevoli oggetti e materiali, ma allo stesso tempo la loro diffusione così massiva è diventata un problema globale.
La plastica è uno dei principali materiali inquinanti del pianeta, e la situazione è sempre più grave soprattutto se consideriamo l’impatto che la plastica ha sul nostro ambiente, e in particolare sugli oceani.
Nei mari italiani le reti dei pescatori non contengono solo pesce: la metà del loro pescato è plastica – bottiglie, sacchetti, cannucce, pezzi di polistirolo. Rifiuti inquinanti che – come ha ammesso lo stesso ministro dell’ambiente Sergio Costa – secondo l’attuale legge 152/2006 devono essere ributtati in mare. Portando a riva la plastica recuperata, i pescatori dovrebbero versare una tassa, o rischierebbero di essere denunciati per traffico illegale di rifiuti: una situazione assurda, che potrebbe essere risolta modificando la normativa e incentivando i pescatori a collaborare.
Questo è uno solo dei tanti segnali che indicano quanto l’inquinamento da plastica sia un’emergenza grave, che sta minacciando la sopravvivenza di più di 700 specie animali – pesci, mammiferi marini e uccelli che scambiano rifiuti di plastica per cibo e vengono soffocati, oppure che ne rimangono intrappolati, mutilati, deformati – ma anche la nostra.
Si stima che ogni anno più di 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono nei nostri oceani (fonte: Greenpeace). Praticamente, è come se ogni minuto un camion pieno di materiali plastici rovesciasse tutto il suo carico in mare. Assurdo.
Da tempo noi ci siamo interessati all’argomento, e anzi è nato proprio da qui il nostro progetto #menoplastica – oltre a leggere tutti gli articoli, puoi seguirci sul profilo Instagram di Good Food Lab e guardare cosa abbiamo fatto fino ad oggi nelle Stories in evidenza. È un tentativo, mio e della mia famiglia, di impegnarci ad aumentare la consapevolezza di chi abbiamo vicino, incentivare a modelli di consumo più sostenibili e difendere uno degli elementi a cui ci sentiamo più legati, il mare. Prima che sia davvero un mare di plastica.
Tutto è iniziato nell’estate del 2016: Ludovico era nato da pochi mesi, e Leonardo non aveva ancora compiuto i 3 anni. Per comodità, trascorremmo parte delle nostre vacanze nella casa estiva dei nonni a Jesolo. E lì – guidati dalla passione di Leo per la biologia marina – abbiamo avuto modo di visitare l’acquario Sea Life.
Tra le vasche luminose e le ambientazioni molto curate, Leo era attratto da un video: l’animazione di una tartaruga marina che nuotava nel suo habitat, a caccia di meduse, ma confusa dalla forma molto simile ingeriva un sacchetto di plastica. La spiccata sensibilità di Leo era stata colpita-e-affondata: non ha fatto che ripetere quella storia per giorni, tanto che – in spiaggia – raccogliere la plastica in mare era diventato il nostro passatempo preferito, condito con la sua tenerissima spiegazione: “perchè se un pesce o una tartaruga lo mangia, sta male!”.
Io lo aiutavo a riempire il suo secchiello – di materiale compostabile! – con cannucce, involucri dei gelati confezionati, cellophane, frammenti di palloncini colorati, tappi e pezzi di plastica di ogni tipo, orgogliosissima di tutto quell’impegno, nascondendogli che in realtà anche se avevamo pulito tutta la parte di spiaggia di fronte a casa, tra le onde davanti a noi c’era ancora un mare di plastica, in tutti i sensi.
Quanto dura la plastica in mare
Il 90% della plastica prodotta non è mai stata riciclata. Il dato è allarmante, perchè significa che tutta quella plastica è dispersa nell’ambiente, e ci resterà per molti, moltissimi anni – se non per sempre.
La plastica infatti è inorganica e non è biodegradabile: la plastica si fotodegrada, ovvero si disintegra in pezzi sempre più piccoli fino alle dimensioni dei polimeri che la compongono, e la loro biodegradazione resta comunque molto difficile. In altre parole: questi materiali rimangono per sempre nell’ambiente in cui sono stati dispersi, solo non li vediamo più perchè si rompono in frammenti piccolissimi.
Una delle forme più pericolose di inquinamento sono proprio le microplastiche: particelle di materiale plastico con dimensione inferiore a 5 millimetri.
Molte di queste particelle derivano appunto dalla disgregazione dei rifiuti più grandi. Ma altrettante microplastiche hanno origine primaria: derivano da fibre tessili che si separano durante l’uso o il lavaggio in lavatrice dei nostri capi in materiale sintetico, oppure dalle microsfere abrasive presenti in prodotti cosmetici, di igiene orale o detersivi.
Hai presente quelle piccole palline nel tuo scrub viso o nel dentifricio che ti promette gengive più pulite? Ecco, quelle microsfere nella maggior parte dei casi sono costituite da plastiche… che sciacquate con l’acqua corrente del tuo lavandino finiscono direttamente nell’ambiente, perchè troppo piccole per poter essere filtrate.
L’Italia le ha messe a bando, ma effettivamente solo dal 2020 (nel frattempo i prodotti che le contengono continuano ad essere commercializzati). Fatto sta che le microplastiche sono sempre più presenti nell’ambiente, disperse negli ecosistemi marini e terrestri e la loro pericolosità è legata al fatto che si tratta di un inquinamento di difficile quantificazione e impossibile da rimuovere totalmente.
I rischi sono gravissimi. Sono moltissimi gli animali marini – mammiferi, pesci ma anche uccelli – che rimangono intrappolati nelle reti fantasma, muoiono soffocati o per colpa della plastica che hanno ingerito, ma non solo. Le plastiche contengono o sviluppano sostanze pericolose – DDT, PCB e altri composti inquinanti dall’altissima tossicità – che avvelenano l’ambiente, o interferiscono con il sistema endocrino degli animali. E che entrano nella catena alimentare: la plastica che abbiamo prodotto, usato e gettato via ritorna sulle nostre tavole, con effetti sulla salute umana che non sono ancora stati chiariti.
Quanta plastica in mare: le isole di plastica
La plastica che per decenni è stata dispersa nell’ambiente ed è arrivata agli oceani si è accumulata – spinta dalle correnti oceaniche – in ben cinque grandi isole di plastica. La più grande e più nota è quella situata tra le Hawaii e la California, chiamata the Great Pacific Garbage Patch (o Pacific Trash Vortex): costituita in realtà da due grandi accumuli di rifiuti – per lo più di materiali plastici – che si formano grazie ad un sistema di correnti che si muove in uno schema circolare.
L’area totale interessata da questo sistema di correnti è di circa 20 milioni di chilometri. Tutti i rifiuti che si trovano a ridosso delle correnti vengono risucchiati e spinti in queste aree, originando un accumulo la cui estensione è difficile da stimare – alcuni studiosi parlano di una superficie grande quanto la Penisola Iberica.
Ora probabilmente ti starai immaginando un grande ammasso di spazzatura galleggiante che si sposta nei nostri oceani: niente di più lontano dalla realtà, purtroppo. Se dovessi navigare in corrispondenza delle grandi isole di plastica oceaniche, sulla superficie non vedresti altro che il mare blu sconfinato. Il pericolo è poco più sotto: microplastiche sospese nell’acqua, a diversi livelli di profondità e con concentrazioni differenti. Uno studio del 2001 stima che ogni chilometro quadrato di oceano, all’interno dell’area del Great Pacific Garbage Patch, contenga in media 334,721 pezzi di plastica. Trecentotrentaquattro mila. E cosa ben più grave, gli scienziati hanno constatato che il 70% dei detriti si deposita sul fondo dell’oceano.
Dal 1988 – anno in cui si era ipotizzata la sua esistenza – ad oggi, le isole di plastica si sono ingigantite ad un ritmo molto sostenuto. Ad alimentarlo continuamente ci sono i rifiuti dispersi in mare in tantissime occasioni: quelli che non vengono correttamente riciclati e persi durante il trasporto nelle discariche, i materiali fuoriusciti dai container delle navi cargo ma anche a causa di incidenti, come il maremoto del marzo 2011 in Giappone che ha riversato in mare un’enorme quantità di detriti.
Le reali dimensioni dell’inquinamento da plastica sono sconvolgenti: il primo studio pubblicato nel 2014 stimava che 5 tonnellate di rifiuti plastici galleggiavano nei nostri mari. Ciò che desta preoccupazione è la densità dei rifiuti che formano queste isole di plastica, di molto superiore alle stime: secondo una ricerca della Ellen MacArthur Foundation entro il 2050 ci sarà più plastica che pesci in mare, a meno che non si agisca subito.
Purtroppo l’isola di plastica non è più un problema soltanto oceanico, ma rischia di diventare realtà anche nel mar Mediterraneo: il WWF ha pubblicato un rapporto in cui lancia l’allarme sull’inquinamento del mare nostrum, in cui la concentrazione di microplastiche raggiunge il record di 1,25 milioni di frammenti per chilometro quadrato, quasi quattro volte il livello rilevato nel Pacific Garbage Patch. E tra le nazioni che si affacciano sul Mediterraneo, Spagna e Italia sono vergognosamente il secondo e terzo paese maggiormente inquinante.
#menoplastica: l’impegno dell’Europa
Lo scorso maggio, sulla base della strategia europea sulla plastica e con l’obiettivo di affrontare con un intervento legislativo il problema dell’inquinamento da plastica in mare, la Commissione Europea ha dichiarato guerra alla plastica usa e getta, proponendo una normativa per mettere al bando alcuni prodotti d’uso quotidiano e regolare la produzione e lo smaltimento di tanti altri.
Puoi leggere il comunicato stampa sul sito ufficiale. In breve, dopo la recente iniziativa sulle buste di plastica, l’attenzione si sposta su una decina di comuni prodotti di plastica monouso (oltre che sugli attrezzi da pesca) che rappresentano il 70% dei rifiuti marini in Europa. Le nuove regole riguarderanno:
– oggetti in plastica come cotton fioc, stoviglie e piatti, cannucce, bastoncini mescolatori per bevande e aste dei palloncini di plastica: ci sarà il divieto alla commercializzazione e la loro sostituzione con alternative ecosostenibili;
– i contenitori per bevande in plastica monouso saranno ammessi solo se i tappi e i coperchi restano attaccati al contenitore;
– oggetti come contenitori per alimenti e per bevande (bicchieri, tazze da asporto): sarà necessario ridurne l’uso;
– involucri e imballaggi di prodotti alimentari, palloncini, filtri delle sigarette, salviette umidificate: i produttori contribuiranno a coprire i costi di gestione di questi rifiuti, e sono previsti incentivi per alternative più ecologiche;
– bottiglie di plastica: entro il 2025 sarà necessario raccogliere il 90% di questi oggetti;
– oggetti come assorbenti, pannolini e salviette dovranno avere etichette più chiare che spieghino che contengono plastica e come devono essere smaltiti.
Si tratta di procedure urgenti, per cui la Commissione richiede un trattamento prioritario da parte delle istituzioni e dei risultati tangibili da parte degli stati membri entro il maggio 2019: una buona prospettiva, anche se poco realizzabile perchè ha dei tempi tecnici, circa 3-4 anni perché diventi operativa.
Una soluzione? L’impegno di tutti noi: prima di essere “costretti da una normativa” a certi comportamenti, possiamo sicuramente iniziare ad agire.
#menoplastica: associazioni e iniziative
Sono tantissime le associazioni che si occupano di aumentare l’attenzione e il coinvolgimento di opinione pubblica e media verso la salvaguardia dell’ecosistema marino, e altrettante le iniziative che promuovono a più livelli l’adozione di modelli di comportamento (individuale o collettivo) che aiutino a ridurre l’inquinamento da plastica. Tanto che è difficile poter creare un elenco esaustivo: mi limito a segnalarti le realtà più importanti, cercando di aggiornare man mano questa lista.
GreenPeace non ha bisogno di presentazioni. Da anni è impegnata contro l’inquinamento da plastica, in tantissimi modi. Segnalo qui la petizione per fermare l’inquinamento da plastica usa e getta e l’iniziativa PlasticRadar: per partecipare basta inviare la foto del rifiuto di plastica e la sua posizione via Whatsapp al numero +39 342 3711267. Le segnalazioni contribuiranno a tracciare la presenza dei rifiuti sulle spiagge italiane, dividendoli per categoria merceologica e con indicazione, quando possibile, del marchio di appartenenza per cercare di sensibilizzare aziende e opinione pubblica sulla quantità di plastica che (spesso inutilmente) consumiamo.
Legambiente è una nota organizzazione ambientalista a base scientifica. Con l’indagine Beach Litter è in atto un monitoraggio delle spiagge italiane con l’obiettivo di indagare quantità e tipologia di rifiuti presenti sui litorali. Tra le diverse attività di ricerca, azioni e campagne di sensibilizzazione, ogni anno organizza l’appuntamento Spiagge e Fondali Puliti, in cui i circoli locali di Legambiente riuniscono volontari per liberare le spiagge e fondali dai rifiuti abbandonati.
Marevivo.it è un’associazione ambientalista con sede a Roma. Ha come obiettivi la conservazione della biodiversità, lo sviluppo sostenibile, la valorizzazione e la promozione delle aree marine protette, la lotta all’inquinamento e alla pesca illegale, l’educazione ambientale.
Una delle ultime campagne, #Ecocannucce, punta ad eliminare le cannucce di plastica o a sostituirle con alternative biodegradabili, e molte realtà hanno già aderito. Sul web l’associazione Marevivo ha lanciato anche l’hashtag #RifiutaLaCannuccia per spingere gli utenti a condividere sui social un selfie con il proprio drink senza cannuccia. Per informazioni: marevivo@marevivo.it
The Ocean Cleanup è una fondazione a partecipazione governativa olandese che oltre a la massa totale e la distribuzione dei frammenti di plastica negli oceani attraverso una serie di spedizioni oceaniche, ha promesso di pulire gli oceani dalla plastica con un sistema alla deriva galleggiante lungo quasi 2 chilometri, che dovrebbe essere installato tra poco (settembre 2018). The Ocean Cleanup stima di poter ripulire il 50 percento del Great Pacific Garbage Patch entro il 2025. Segui il profilo Instagram per aggiornamenti.
4Oceans è una organizzazione internazionale nata dall’idea di due surfisti: commercializzando un braccialetto in materiale riciclato garantiscono che per ogni pezzo venduto venga raccolto dal mare 1 pound (0,45 kg) di plastica dal mare. Puoi leggere la loro storia e acquistare il tuo braccialetto.
Petizioni online e altre iniziative contro “un mare di plastica”
Oltre a quella già segnalata di Greenpeace, puoi firmare la petizione su Change.org promossa da Marevivo per chiedere di vietare l’impiego di prodotti di plastica monouso (bottiglie, stoviglie, cannucce e tutti gli oggetti in plastica che utilizziamo una volta sola prima di buttare) nei servizi e negli uffici delle istituzioni pubbliche.
Sono tante le associazioni e i profili social che si occupano di condividere informazioni e di invitare le persone a fare qualcosa di concreto per liberare i nostri mari dalla plastica. Per esempio, Take 3 for the sea, è basato su una semplice richiesta: raccogliere tre rifiuti di plastica dall’ambiente ogni volta che lasci la spiaggia. Se ti interessa, vai anche a vedere il profilo Instagram di Take 3 for the sea.
Anche noi, quest’estate, abbiamo continuato la “tradizione” iniziata da Leo di voler ripulire il pezzo di spiaggia davanti a casa. In pochi giorni il nostro gesto è diventato un’abitudine, e abbiamo riempito più volte i secchielli con rifiuti vari di materiali plastici – cannucce, pezzi di polistirolo, palloncini di plastica, involucri di gelati,… tanto che abbiamo chiesto a più persone di unirsi a noi al suono di “raccogli plastica e non conchiglie“.
Pensaci: le conchiglie appartengono al mare. Le raccogliamo perchè sono belle e ci piace portarci a casa un ricordo delle vacanze appena trascorse. Ma la plastica è tutta nostra: bastano pochi minuti al giorno per ripulire un pezzetto di spiaggia, mentre passeggiamo o giochiamo sulla riva.
Il secondo passo, ancora più importante, è prendere coscienza del fatto che il nostro modello di consumo globale è poco sostenibile, e va modificato tanto quanto la nostra attenzione verso le tematiche ambientali: la ricerca Beach Litter di Legambiente ha evidenziato che il 48% dei rifiuti che si trovano nelle spiagge sono prodotti dai pic-nic dei bagnanti – involucri di merendine o gelati, tappi di bottiglie di plastica, cannucce, per non parlare dei mozziconi di sigaretta o dei giocattoli rotti e abbandonati direttamente sulla sabbia oppure buttati nei cestini già pieni senza considerare che il vento li fa volare nell’ambiente.
Abbandoniamo la plastica usa e getta: non nell’ambiente ma nelle nostre abitudini di consumo. Con plastica usa e getta si intendono tutti quegli oggetti di plastica che vengono utilizzati per pochi minuti, ma che hanno lunghissimi tempi di smaltimento. Esistono molte alternative ecosostenibili ai comuni oggetti usa e getta, dalle stoviglie di carta ai pannolini compostabili – se vuoi saperne di più leggi il mio post su come ridurre l’uso della plastica, pieno di suggerimenti ed esempi pratici.